«La consapevolezza della inevitabilità della morte è tra le armi del saggio»
Seneca e la catastrofe imprevedibile

di Arturo De Vivo*

Lo studio dei terremoti è una materia che appassiona il filosofo Seneca fin da quando in gioventù pubblicò un volume sull’argomento. Pertanto, dopo che nel 62 abbandona la politica e si congeda da Nerone, egli ritorna alla scienza e, nell’ambito delle Naturales quaestiones (Ricerche sulla natura), dedica il sesto libro al terremoto: è un vero e proprio trattato in cui mette a frutto tutti i suoi progressi nella conoscenza scientifica del fenomeno. D’altra parte, il recente sisma del 62 che aveva sconvolto alcune città della Campania e il dramma di quelle popolazioni gli consentono di saldare coerentemente lo sforzo conoscitivo con l’intento pedagogico. La scienza per Seneca, come per ogni studioso antico, non può disgiungersi dalla morale: il fine ultimo della ricerca sulla natura è quello di determinare un progresso delle menti nella perfetta interazione di sapere scientifico e sapere etico. È significativo che le sezioni dedicate all’admonitio morale ( proemio e epilogo) siano più di un terzo del libro che nella sezione centrale contiene la trattazione teorico- scientifica.

L’obiettivo di Seneca, che osserva gli effetti catastrofici del sisma campano, è quello di liberare gli uomini dalla paura del terremoto, che è poi la paura di morire, attraverso la conoscenza delle cause naturali del fenomeno. La scienza diventa, perciò, remedium doloris, la trattazione scientifica è motivo di consolazione: «Tutto questo… è quanto attiene alle cause; ora ciò che serve a rinvigorire gli animi, che a noi interessa rendere più forti piuttosto che più dotti; ma l’una cosa non può avvenire senza l’altra: l’animo infatti trae forza soltanto dai buoni studi, dall’osservazione attenta della natura» (nat. quaest. VI 32,1). È l’ignoranza a ingenerare paura in noi che osserviamo i fenomeni naturali, è meglio perciò conoscere la verità per non avere paura; e la verità è che il terremoto è una catastrofe «che non si può né evitare, né prevedere » (nat. quaest. VI 1,10 quae nec evitari nec provideri potest).

L’errore più grande è ritenere che esistano località esenti dal rischio sismico, giacché la natura non ha creato nulla di immobile e di eterno. Eppure, secondo Seneca, non c’è maggiore conforto di fronte alla morte che la nostra condizione mortale: perché dovrebbero atterrirci le grandi calamità come il terremoto se le cause più banali possono eliminarci? In una serie crescente di paradossi, tipica dell’argomentazione degli Stoici, il filosofo arriva a dire che può essere addirittura esaltante che sia la stessa terra a venire sopra di noi. La consapevolezza della inevitabilità della morte e il disprezzo della morte stessa sono le armi che il saggio ha contro ogni paura, anche quella del terremoto. Seneca non tace alcuno degli effetti catastrofici del sisma su uomini e cose e li descrive con grande efficacia: «Tutti sono in preda al terrore quando gli edifici scricchiolano e la rovina si annuncia. Allora tutti si gettano fuori a precipizio e abbandonano le proprie case e si rifugiano all’aperto. A quale riparo rivolgerci, a quale aiuto, se il mondo stesso si spacca, se ciò che ci protegge e ci sostiene, su cui poggiano le città, che alcuni hanno detto il fondamento del mondo, si spacca e vacilla» (nat. quaest. VI 1,5). Paradossalmente in così grande catastrofe Seneca fa la sua professione di fede nella scienza, che è riconoscimento delle cause naturali del terremoto e si traduce perciò in un senso di rispetto nei confronti dell’ordine della natura e dell’ambiente.

* Professore di Letteratura Latina, Università degli Studi di Napoli Federico

(fonte: il Corriere del Mezzogiorno, 16 aprile 2009, Dossier "Come alla Corte di Federico II")